martedì 23 marzo 2010

Gerusalemme (in)divisa

La "questione Gerusalemme" è l'esempio di ciò che accade tra Israele, la Palestina e gli organi internazionali. In queste ore il premier israeliano Benjamin Netanyahu si trova negli Usa e, durante la Riunione annuale dell'Aipac, ha ribadito che "Gerusalemme è la nostra capitale". Questa dichiarazione è in linea con la politica israeliana che vede nella città santa la sua naturale, totale e definitiva capitale. Queste parole acquistano ancora più forza in questi giorni di tensione tra Usa e Israele. La decisione di Israele di edificare 1600 nuovi alloggi nel settore orientale della città, zona rivendicata come propria capitale dai palestinesi, ha aperto uno scontro, per ora sopito, tra gli Stati uniti e Israele.
Gerusalemme fu proclamata capitale d'Israele nel 1950 ed è dal 1967 che lo stato ebraico ha il controllo di fatto sulla città. I palestinesi rivendicano la sovranità territoriale su Gerusalemme Est, mentre la maggior parte dei membri dell'Onu non accettano né che Gerusalemme sia la capitale israeliana né che la parte Est cada sotto il suo controllo.
Il diritto internazionale si trova in aperto imbarazzo e lo scontro tra le posizioni si nutre di interpretazioni faziose sia della storia passata della città sia dell'attuale spartizione del territorio.
L'unica cosa certa è che Israele, convinta delle sue ragioni, non sembra voler cedere di un passo, continuando anzi con la sua politica preferita: costruire abitazioni, espandere il territorio abitato dai suoi connazionali e inglobare le case arabe, per poi arrivare ad uno status quo che abbatta definitivamente ogni discussione e ogni possibilità di compromesso fra le parti.

domenica 21 marzo 2010

Un'etica della responsabilità

Una vera etica della responsabilità dovrebbe investire non solo quelle autorità e quegli uomini che hanno potere decisionale, ma
dovrebbe richiedere un impegno da parte di tutte quelle forze che formano l'opinione pubblica. Quelle forze, evidentemente, sono i
mezzi d'informazione che, in definitiva, condizionano l'opinione di ogni singolo individuo.
Una vera etica della responsabilità presuppone che vengano sciolte le ambiguità che lasciano ampi margini di interpretazione e, di conseguenza, di scontro.
Per porre fine al conflitto è necessario che ci siano due interlocutori che si siedano ad uno stesso tavolo, che abbiano la volontà di capirsi e, cosa più importante, che parlino la stessa lingua. E' proprio il linguaggio quello che manca, o meglio, è l'ambiguità dei termini che impedisce una vera presa di posizione responsabile.
Si parla spesso, a proposito di Israele e Palestina, di diritto. Precisando che diritto non è sinonimo di giustizia, bisogna prendere atto di come, in quella terra, il diritto sia la cosa più violata.
Diritto non significa giustizia, o almeno non solo questo; diritto non è un insieme di leggi, o almeno non solo questo; diritto, infine, è anche qualcosa di non negoziabile.
Ci sono diritti che sono, o dovrebbero essere, riconosciuti propri dell'uomo e che non possono dipendere dalle diverse leggi dei differenti paesi.
Ma è quando due diritti si scontrano che sorge il problema:
dove inizia il diritto alla sicurezza di Israele e dove finisce il diritto al movimento dei Palestinesi?
Se non si arriva ad una risposta, l'unica soluzione possibile è un muro, sia fisico che ideologico.
E ancora: cosa significa 'terrorismo'? Chi è terrorista e chi è soldato? Che differenza c'è tra un'azione di guerra e una pulizia etnica? Cosa significa sionista? Ed ebreo? E israeliano? Tutti gli ebrei sono sionisti? Tutti gli israeliani sono ebrei e sionisti?
Molte di queste domande possono trovare una risposta nello studio della storia.
Alle domande più importanti, quelle sui diritti, la giustizia e la pace, possono dare una risposta solo coloro che hanno il potere, e quindi la responsabilità, di darne.
Quindi, in definitiva, una spiegazione storica della questione israelo-palestinese è la storia del perché una risposta, ancora, non ce l'abbiano data.