L'attacco delle forze armate israeliane alla flotta di navi "pacifiste" mette in luce, con inesorabile chiarezza, tutta la debolezza di un Paese che si sente accerchiato, isolato e impotente.
Le ripercussioni di un gesto sconsiderato stanno allagando non solo l'opinione pubblica internazionale, ma anche la stessa società israeliana.
Il governo ha perso di credibilità; l'esercito, da sempre sostenuto in ogni sua azione, viene accusato di inefficacia; i giornali israeliani condannano un'azione che ha messo in difficoltà l'intera strategia israeliana di sicurezza. L'unico fattore unificante è il rifiuto di sottomettersi a delle indagini da parte dell'ONU, definito un organismo ipocrita e fazioso.
A qualche giorno di distanza dall'accaduto, possiamo guardare ai fatti senza quella emotività che condiziona ogni giudizio a caldo.
La Striscia di Gaza, dal 2007, anno della presa del potere di Hamas, è tagliata fuori dal resto del mondo. Israele sorveglia l'entrata e l'uscita di persone, merci e medicinali, sia via terra che via mare. Lo scopo, apertamente dichiarato, è quello di spingere la popolazione a ribellarsi ad Hamas. Un milione e mezzo di persone vivono al limite della dignità umana senza la possibilità di muoversi liberamente, senza il diritto ad essere curati, senza cemente e ferro per ricostruire le abitazioni distrutte dai raid israeliani (Operazione "Piombo Fuso"), senza concime per coltivare i campi e senza poter pescare nelle acque costiere.
I fertilizzanti non entrano nella Striscia perchè possono essere usati per la costruzione di esplosivi, i tubi in ferro, indispensabili nei cantieri, potrebbero essere usati come razzi rudimentali, la benzina è un propellente, quindi ne è vietato l'accesso.
In definitiva, Israele sta mettendo in ginocchio una popolazione con lo scopo di suscitare una rivolta contro Hamas, senza accorgersi che sta facendo il gioco di quella stessa organizzazione che vuole sconfiggere.
Ma Israele crede in quello che fa, pattugliando con zelo il tratto di mare antistante la Striscia.
Dalla Turchia parte un piccola flotta di navi cariche di tutti quei beni di prima necessità che la popolazione di Gaza si vede negare. Lo scopo del viaggio, inutile nasconderlo, non è solo l'aiuto umanitario, ma anche, e soprattutto, la violazione simbolica del blocco israeliano.
A diverse miglia dalla costa, in acque internazionali, le navi vengono intercettate ed assaltate. In termini militari è un fallimento, perchè la resistenza di alcuni passeggieri mette in crisi la prima ondata di militari. Colti di sorpresa, cosa deprecabile per ogni esercito, rispondono con esagerata violenza: usano armi letali e uccidono 10 persone ferendone diverse decine.
Gli aiuti non sono arrivati a destinazione, ma il messaggio di un'Israele forte, ma cieco e brutale, è giunto agli occhi di tutto il mondo. Probabilmete era anche questo lo scopo di quel viaggio attraverso il Mediterraneo.
Mostrare i muscoli, mettersi a nudo, ha l'inconveniente di ostentare a tutti i propri difetti fisici.
giovedì 3 giugno 2010
martedì 1 giugno 2010
L'attacco alla nave? Ben fatto!
L'esercito israeliano attacca dei civili, ne uccide circa 10, ferendone decine, e ferma tutti i 700 attivisti che facevano parte della spedizione umanitaria verso Gaza.
Le reazioni non si fanno attendere, alcune condivisibili, altre folli.
Tra quelle appartenenti all'ultima categoria è significativa quella di Ugo Volli.
Il concetto da lui espresso è questo:
il viaggio della flotta di pacifisti è un atto di guerra perché mira a destabilizzare Israele e a rompere il "blocco" che circonda la Striscia di Gaza, aprendo la strada ad un futuro fatto di navi cariche di armamenti per Hamas.
Quindi, se Israele non fosse intervenuta, avrebbe preso il via un'era caratterizzata da migliaia di navi piene di armi che solcano il Mediterraneo con destinazione Gaza e i suoi terroristi.
Se, invece, come è avvenuto, Israele avesse compiuto un blitz armato contro dei civili (Ugo Volli li chiama "pacifisti armati", anche se le armi le ha viste solo lui), allora tutto il mondo sarebbe stato contro Israele.
Tra le due, Volli preferisce la seconda. Quindi si può ritenere soddisfatto!
Il problema è che quelle navi non trasportavano armi, ma beni di prima necessità. Attaccare con la forza dei civili, DISARMATI, con la scusa che se il blocco venisse infranto allora anche le navi con armi potranno passare, è un assurdo logico.
Israele, che controlla tutta la fascia costiera della Striscia, non riesce a descriminare tra aiuti umanitari e aiuti bellici?
Anche Ugo Volli fatica a trovare delle differenze?
Non solo non fa distinguo, ma afferma con forza che per combattere il terrorismo si deve impedire anche agli aiuti umanitari di giungere a Gaza.
Chiudere un milione e mezzo di persone in un territorio lungo 20 km e largo 5 km, lasciarlo privo di medicine, benzina, cemento e ferro, e il modo migliore per debellare il terrorismo?
Ugo Volli esprime solo un'opinione; i governanti israeliani, che la pensano come lui, passano dalle parole ai fatti, danneggiando soprattutto se stessi.
Le reazioni non si fanno attendere, alcune condivisibili, altre folli.
Tra quelle appartenenti all'ultima categoria è significativa quella di Ugo Volli.
Il concetto da lui espresso è questo:
il viaggio della flotta di pacifisti è un atto di guerra perché mira a destabilizzare Israele e a rompere il "blocco" che circonda la Striscia di Gaza, aprendo la strada ad un futuro fatto di navi cariche di armamenti per Hamas.
Quindi, se Israele non fosse intervenuta, avrebbe preso il via un'era caratterizzata da migliaia di navi piene di armi che solcano il Mediterraneo con destinazione Gaza e i suoi terroristi.
Se, invece, come è avvenuto, Israele avesse compiuto un blitz armato contro dei civili (Ugo Volli li chiama "pacifisti armati", anche se le armi le ha viste solo lui), allora tutto il mondo sarebbe stato contro Israele.
Tra le due, Volli preferisce la seconda. Quindi si può ritenere soddisfatto!
Il problema è che quelle navi non trasportavano armi, ma beni di prima necessità. Attaccare con la forza dei civili, DISARMATI, con la scusa che se il blocco venisse infranto allora anche le navi con armi potranno passare, è un assurdo logico.
Israele, che controlla tutta la fascia costiera della Striscia, non riesce a descriminare tra aiuti umanitari e aiuti bellici?
Anche Ugo Volli fatica a trovare delle differenze?
Non solo non fa distinguo, ma afferma con forza che per combattere il terrorismo si deve impedire anche agli aiuti umanitari di giungere a Gaza.
Chiudere un milione e mezzo di persone in un territorio lungo 20 km e largo 5 km, lasciarlo privo di medicine, benzina, cemento e ferro, e il modo migliore per debellare il terrorismo?
Ugo Volli esprime solo un'opinione; i governanti israeliani, che la pensano come lui, passano dalle parole ai fatti, danneggiando soprattutto se stessi.
Il blitz delle parole
La notizia dell'attacco israeliano inferto ad una nave turca piena di pacifisti ha colonizzato le pagine dei giornali. Le riflessioni, più o meno autorevoli, scorrono veloci e rumorose sulle acque stagnanti del conflitto israelo-palestinese.
Il silenzio si è rotto, la questione è ri-diventata di attualità. Per chi si interessa quotidianamente dellla tragedia del popolo palestinese e della paura che accompagna ogni ebreo israeliano, tutto questo non può che far sorridere.
Il volto umano, a differenza di quello animale, ha la proprietà di manifestare i sentimenti con la sola forza della contrazione muscolare visiva. Dio, o chi per lui, non è amante della semplicità, e ha pensato bene di complicare un po' le cose, regalando al sorriso più significati. Sorridere può essere espressione di felicità, di sarcasmo, di compassione e di ironia; può essere sintomo di un ebetismo cronico o di una naturale tendenza all'omicidio seriale.
Nella lotta dell'interpretazione dei fatti, caratteristica fondamentale degli opinionisti, si immette con forza anche la diatriba, mai sopita, dello studio del volto di fisioniomica memoria.
Senza andare per le lunghe, è doveroso svelare che il sorriso di cui stiamo parlando non è niente di irrispettoso verso le vittime del blitz navale. Infatti, l'estensione degli angoli della bocca è accompagnata da due occhi spenti e rassegnati, come a voler dire: "Tempo una settimana, e il silenzio tornerà a regnare".
Gli stessi occhi scorrono gli articoli di giornale che parlano del fatto, ma non riescono ad inquadrare il volto dell'autore.
Chissà quale sorriso ha accompagnato la sua mano...
Il silenzio si è rotto, la questione è ri-diventata di attualità. Per chi si interessa quotidianamente dellla tragedia del popolo palestinese e della paura che accompagna ogni ebreo israeliano, tutto questo non può che far sorridere.
Il volto umano, a differenza di quello animale, ha la proprietà di manifestare i sentimenti con la sola forza della contrazione muscolare visiva. Dio, o chi per lui, non è amante della semplicità, e ha pensato bene di complicare un po' le cose, regalando al sorriso più significati. Sorridere può essere espressione di felicità, di sarcasmo, di compassione e di ironia; può essere sintomo di un ebetismo cronico o di una naturale tendenza all'omicidio seriale.
Nella lotta dell'interpretazione dei fatti, caratteristica fondamentale degli opinionisti, si immette con forza anche la diatriba, mai sopita, dello studio del volto di fisioniomica memoria.
Senza andare per le lunghe, è doveroso svelare che il sorriso di cui stiamo parlando non è niente di irrispettoso verso le vittime del blitz navale. Infatti, l'estensione degli angoli della bocca è accompagnata da due occhi spenti e rassegnati, come a voler dire: "Tempo una settimana, e il silenzio tornerà a regnare".
Gli stessi occhi scorrono gli articoli di giornale che parlano del fatto, ma non riescono ad inquadrare il volto dell'autore.
Chissà quale sorriso ha accompagnato la sua mano...
martedì 23 marzo 2010
Gerusalemme (in)divisa
La "questione Gerusalemme" è l'esempio di ciò che accade tra Israele, la Palestina e gli organi internazionali. In queste ore il premier israeliano Benjamin Netanyahu si trova negli Usa e, durante la Riunione annuale dell'Aipac, ha ribadito che "Gerusalemme è la nostra capitale". Questa dichiarazione è in linea con la politica israeliana che vede nella città santa la sua naturale, totale e definitiva capitale. Queste parole acquistano ancora più forza in questi giorni di tensione tra Usa e Israele. La decisione di Israele di edificare 1600 nuovi alloggi nel settore orientale della città, zona rivendicata come propria capitale dai palestinesi, ha aperto uno scontro, per ora sopito, tra gli Stati uniti e Israele.
Gerusalemme fu proclamata capitale d'Israele nel 1950 ed è dal 1967 che lo stato ebraico ha il controllo di fatto sulla città. I palestinesi rivendicano la sovranità territoriale su Gerusalemme Est, mentre la maggior parte dei membri dell'Onu non accettano né che Gerusalemme sia la capitale israeliana né che la parte Est cada sotto il suo controllo.
Il diritto internazionale si trova in aperto imbarazzo e lo scontro tra le posizioni si nutre di interpretazioni faziose sia della storia passata della città sia dell'attuale spartizione del territorio.
L'unica cosa certa è che Israele, convinta delle sue ragioni, non sembra voler cedere di un passo, continuando anzi con la sua politica preferita: costruire abitazioni, espandere il territorio abitato dai suoi connazionali e inglobare le case arabe, per poi arrivare ad uno status quo che abbatta definitivamente ogni discussione e ogni possibilità di compromesso fra le parti.
Gerusalemme fu proclamata capitale d'Israele nel 1950 ed è dal 1967 che lo stato ebraico ha il controllo di fatto sulla città. I palestinesi rivendicano la sovranità territoriale su Gerusalemme Est, mentre la maggior parte dei membri dell'Onu non accettano né che Gerusalemme sia la capitale israeliana né che la parte Est cada sotto il suo controllo.
Il diritto internazionale si trova in aperto imbarazzo e lo scontro tra le posizioni si nutre di interpretazioni faziose sia della storia passata della città sia dell'attuale spartizione del territorio.
L'unica cosa certa è che Israele, convinta delle sue ragioni, non sembra voler cedere di un passo, continuando anzi con la sua politica preferita: costruire abitazioni, espandere il territorio abitato dai suoi connazionali e inglobare le case arabe, per poi arrivare ad uno status quo che abbatta definitivamente ogni discussione e ogni possibilità di compromesso fra le parti.
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domenica 21 marzo 2010
Un'etica della responsabilità
Una vera etica della responsabilità dovrebbe investire non solo quelle autorità e quegli uomini che hanno potere decisionale, ma
dovrebbe richiedere un impegno da parte di tutte quelle forze che formano l'opinione pubblica. Quelle forze, evidentemente, sono i
mezzi d'informazione che, in definitiva, condizionano l'opinione di ogni singolo individuo.
Una vera etica della responsabilità presuppone che vengano sciolte le ambiguità che lasciano ampi margini di interpretazione e, di conseguenza, di scontro.
Per porre fine al conflitto è necessario che ci siano due interlocutori che si siedano ad uno stesso tavolo, che abbiano la volontà di capirsi e, cosa più importante, che parlino la stessa lingua. E' proprio il linguaggio quello che manca, o meglio, è l'ambiguità dei termini che impedisce una vera presa di posizione responsabile.
Si parla spesso, a proposito di Israele e Palestina, di diritto. Precisando che diritto non è sinonimo di giustizia, bisogna prendere atto di come, in quella terra, il diritto sia la cosa più violata.
Diritto non significa giustizia, o almeno non solo questo; diritto non è un insieme di leggi, o almeno non solo questo; diritto, infine, è anche qualcosa di non negoziabile.
Ci sono diritti che sono, o dovrebbero essere, riconosciuti propri dell'uomo e che non possono dipendere dalle diverse leggi dei differenti paesi.
Ma è quando due diritti si scontrano che sorge il problema:
dove inizia il diritto alla sicurezza di Israele e dove finisce il diritto al movimento dei Palestinesi?
Se non si arriva ad una risposta, l'unica soluzione possibile è un muro, sia fisico che ideologico.
E ancora: cosa significa 'terrorismo'? Chi è terrorista e chi è soldato? Che differenza c'è tra un'azione di guerra e una pulizia etnica? Cosa significa sionista? Ed ebreo? E israeliano? Tutti gli ebrei sono sionisti? Tutti gli israeliani sono ebrei e sionisti?
Molte di queste domande possono trovare una risposta nello studio della storia.
Alle domande più importanti, quelle sui diritti, la giustizia e la pace, possono dare una risposta solo coloro che hanno il potere, e quindi la responsabilità, di darne.
Quindi, in definitiva, una spiegazione storica della questione israelo-palestinese è la storia del perché una risposta, ancora, non ce l'abbiano data.
dovrebbe richiedere un impegno da parte di tutte quelle forze che formano l'opinione pubblica. Quelle forze, evidentemente, sono i
mezzi d'informazione che, in definitiva, condizionano l'opinione di ogni singolo individuo.
Una vera etica della responsabilità presuppone che vengano sciolte le ambiguità che lasciano ampi margini di interpretazione e, di conseguenza, di scontro.
Per porre fine al conflitto è necessario che ci siano due interlocutori che si siedano ad uno stesso tavolo, che abbiano la volontà di capirsi e, cosa più importante, che parlino la stessa lingua. E' proprio il linguaggio quello che manca, o meglio, è l'ambiguità dei termini che impedisce una vera presa di posizione responsabile.
Si parla spesso, a proposito di Israele e Palestina, di diritto. Precisando che diritto non è sinonimo di giustizia, bisogna prendere atto di come, in quella terra, il diritto sia la cosa più violata.
Diritto non significa giustizia, o almeno non solo questo; diritto non è un insieme di leggi, o almeno non solo questo; diritto, infine, è anche qualcosa di non negoziabile.
Ci sono diritti che sono, o dovrebbero essere, riconosciuti propri dell'uomo e che non possono dipendere dalle diverse leggi dei differenti paesi.
Ma è quando due diritti si scontrano che sorge il problema:
dove inizia il diritto alla sicurezza di Israele e dove finisce il diritto al movimento dei Palestinesi?
Se non si arriva ad una risposta, l'unica soluzione possibile è un muro, sia fisico che ideologico.
E ancora: cosa significa 'terrorismo'? Chi è terrorista e chi è soldato? Che differenza c'è tra un'azione di guerra e una pulizia etnica? Cosa significa sionista? Ed ebreo? E israeliano? Tutti gli ebrei sono sionisti? Tutti gli israeliani sono ebrei e sionisti?
Molte di queste domande possono trovare una risposta nello studio della storia.
Alle domande più importanti, quelle sui diritti, la giustizia e la pace, possono dare una risposta solo coloro che hanno il potere, e quindi la responsabilità, di darne.
Quindi, in definitiva, una spiegazione storica della questione israelo-palestinese è la storia del perché una risposta, ancora, non ce l'abbiano data.
venerdì 19 marzo 2010
Una visione "ingenua" della seconda Intifadah
Oggi, 19 marzo, è uscito su Libero un articolo di Angelo Pezzana molto critico verso le dichiarazioni di Napolitano in Siria. Non ho molta stima per quel giornale, la cui linea editoriale è nota. Ma è utile soffermarsi su alcuni punti dell'articolo in questione. Leggendolo ho avuto la conferma dell'esistenza di due storie che corrono parallele lungo la via della diatriba arabo-israeliana.
Pezzana, dopo aver contestato Napolitano perché "critica gli insediamenti, non i terroristi", si dilunga in un esempio che, a suo dire, rivela la strategia palestinese: una propaganda mediatica ad ampio raggio tesa a delegittimare lo Stato ebraico e "a convincere noi poveri ingenui creduloni, che in fondo gli ebrei sanno solo cercarsela, e ben gli sta".
Riporto testualmente le sue parole:
"Era già successo il 28 settembre 2000, ricordate?, con quella che passò alla storia come la 'passeggiata di Sharon sulla spianate delle moschee', e come tale è rimasta nell'immaginario collettivo come la causa della seconda Intifadah. Come per miracolo, la guerriglia, benedetta e giustificata da un gesto clamoroso, e in più facile da comunicare, ebbe inizio. La realtà era un'altra, ovviamente. Sharon si era recato sul monte del Tempio dopo averne concordato la visita con le autorità musulmane, che non avevano avuto nulla da ridire. Ad organizzare la versione 'esplosiva' era stata quella canaglia di Arafat, che in tutta la sua purtroppo lunga carriera è sempre riuscito a manipolare con abilità i mezzi di informazione occidentali.
Che quella sia stata l'occasione per la seconda Intifadah è una menzogna."
La tesi finale è che tutto era già programmato, ai palestinesi serviva solo il pretesto per iniziare la guerriglia ed apparire i "buoni" agli occhi degli occidentali. L'occasione è stata quindi colta con la visita, innocente e tranquilla, di Sharon alla Spianata delle moschee.
Ci sono molte cose da dire, ma sorvolerò su chi è Sharon e sul suo passato e su cosa voglia dire manipolare la verità per crearsi degli alibi, perché altrimenti si perderebbe di vista il punto centrale.
Ad onor del vero esiste una tesi opposta a quella di Pezzana e di molti altri che la pensano come lui. Infatti si è dimenticato di riportare un piccolo particolare: la rivolta non scoppiò a causa della visita di Sharon, ma solo dopo tre giorni, durante i quali l'esercito israeliano presidiò costantemente la Spianata sacra ai musulmani. Paradossalmente Pezzana ha ragione: è una menzogna dire che l'occasione per la seconda Intifadah fu la visita di Sharon, l'obiettivo richiedeva più sforzo. L'Intifadah era già pronta? Ovviamente i palestinesi, i movimenti più o meno radicali che li rappresentano e i singoli individui arabi, vivono in una realtà in cui lo scontro è sempre aperto. Quindi ogni scintilla può far esplodere un incendio. Pezzana lo sa, e lo sapeva anche meglio Sharon che, tra tutti i suoi difetti, non annovera di certo quello di ingenuità politica.
La vera domanda è: perché fare quella visita? Perché mantenere delle pattuglie in quella zona, quando si sapeva benissimo che ciò avrebbe scatenato una rivolta?
Chi sono i veri "ingenui creduloni"?
Allora la visuale si ribalta; i veri maestri di propaganda sono gli Israeliani che, attraverso la provocazione, scatenano la rivolta palestinese per giustificare una repressione dura e cruda che è stato da sempre lo slogan di Sharon. Una mossa geniale per apparire agli occhi degli occidentali, tramita una manipolazione dei fatti, i difensori della loro sicurezza contro i cattivi palestinesi.
Aggiungo solo una cosa che ho visto con i miei occhi:
nella parte araba di Gerusalemme c'è una casa che sovrasta tutte le altre, maestosa e invadente, sulla quale campeggia una enorme bandiera israeliana che, mossa dal vento, accarezza un grande candelabro a 9 braccia. Quella casa è di Ariel Sharon, non ci abita, ma è solo un monito per tutti i palestinesi. Alzando lo sguardo, ogni giorno vedono i due simboli israeliani, quello laico e quello religioso, guardarli dall'alto all'interno della loro zona.
Quando si dice provocare.
Pezzana, dopo aver contestato Napolitano perché "critica gli insediamenti, non i terroristi", si dilunga in un esempio che, a suo dire, rivela la strategia palestinese: una propaganda mediatica ad ampio raggio tesa a delegittimare lo Stato ebraico e "a convincere noi poveri ingenui creduloni, che in fondo gli ebrei sanno solo cercarsela, e ben gli sta".
Riporto testualmente le sue parole:
"Era già successo il 28 settembre 2000, ricordate?, con quella che passò alla storia come la 'passeggiata di Sharon sulla spianate delle moschee', e come tale è rimasta nell'immaginario collettivo come la causa della seconda Intifadah. Come per miracolo, la guerriglia, benedetta e giustificata da un gesto clamoroso, e in più facile da comunicare, ebbe inizio. La realtà era un'altra, ovviamente. Sharon si era recato sul monte del Tempio dopo averne concordato la visita con le autorità musulmane, che non avevano avuto nulla da ridire. Ad organizzare la versione 'esplosiva' era stata quella canaglia di Arafat, che in tutta la sua purtroppo lunga carriera è sempre riuscito a manipolare con abilità i mezzi di informazione occidentali.
Che quella sia stata l'occasione per la seconda Intifadah è una menzogna."
La tesi finale è che tutto era già programmato, ai palestinesi serviva solo il pretesto per iniziare la guerriglia ed apparire i "buoni" agli occhi degli occidentali. L'occasione è stata quindi colta con la visita, innocente e tranquilla, di Sharon alla Spianata delle moschee.
Ci sono molte cose da dire, ma sorvolerò su chi è Sharon e sul suo passato e su cosa voglia dire manipolare la verità per crearsi degli alibi, perché altrimenti si perderebbe di vista il punto centrale.
Ad onor del vero esiste una tesi opposta a quella di Pezzana e di molti altri che la pensano come lui. Infatti si è dimenticato di riportare un piccolo particolare: la rivolta non scoppiò a causa della visita di Sharon, ma solo dopo tre giorni, durante i quali l'esercito israeliano presidiò costantemente la Spianata sacra ai musulmani. Paradossalmente Pezzana ha ragione: è una menzogna dire che l'occasione per la seconda Intifadah fu la visita di Sharon, l'obiettivo richiedeva più sforzo. L'Intifadah era già pronta? Ovviamente i palestinesi, i movimenti più o meno radicali che li rappresentano e i singoli individui arabi, vivono in una realtà in cui lo scontro è sempre aperto. Quindi ogni scintilla può far esplodere un incendio. Pezzana lo sa, e lo sapeva anche meglio Sharon che, tra tutti i suoi difetti, non annovera di certo quello di ingenuità politica.
La vera domanda è: perché fare quella visita? Perché mantenere delle pattuglie in quella zona, quando si sapeva benissimo che ciò avrebbe scatenato una rivolta?
Chi sono i veri "ingenui creduloni"?
Allora la visuale si ribalta; i veri maestri di propaganda sono gli Israeliani che, attraverso la provocazione, scatenano la rivolta palestinese per giustificare una repressione dura e cruda che è stato da sempre lo slogan di Sharon. Una mossa geniale per apparire agli occhi degli occidentali, tramita una manipolazione dei fatti, i difensori della loro sicurezza contro i cattivi palestinesi.
Aggiungo solo una cosa che ho visto con i miei occhi:
nella parte araba di Gerusalemme c'è una casa che sovrasta tutte le altre, maestosa e invadente, sulla quale campeggia una enorme bandiera israeliana che, mossa dal vento, accarezza un grande candelabro a 9 braccia. Quella casa è di Ariel Sharon, non ci abita, ma è solo un monito per tutti i palestinesi. Alzando lo sguardo, ogni giorno vedono i due simboli israeliani, quello laico e quello religioso, guardarli dall'alto all'interno della loro zona.
Quando si dice provocare.
giovedì 18 marzo 2010
Ognuno si fa la sua Storia
Per cogliere tutte le sfumature che caratterizzano il conflitto arabo-israeliano è indispensabile ricercarne le radici nella Storia.
E' un lavoro difficile per diverse ragioni: in primo luogo si deve arretrare nel tempo, e cominciare l'indagine dalla fine dell'Ottocento.
Inoltre, è un conflitto che può essere equiparato ad un libro non ancora terminato ma che può vantare la stesura di numerosi capitoli, tutti completi e coerenti.Ogni capitolo può dirsi concluso, ma il suo apporto rimarrà aperto fino a quando non sarà messo il punto definitivo a tutto il racconto.
Questa continuità fatta di episodi ormai datati, che però mantengono inalterata la loro influenza sulla situazione odierna, ha contribuito a rendere difficile un'interpretazione univoca. Ecco che, allora, un'analisi storica sulle origini e sulle prospettive dellla questione israelo-palestinese non può ridursi ad una cronologia delle tappe più importanti che hanno portato alla nascita dello Stato d'Israele e che hanno scandito i suoi scontri con gli arabi e i palestinesi.
Dietro ad ogni avvenimento ci sono delle logiche che si possono disvelare solo conoscendo le pieghe culturali e politiche che lo sostengono.
In questo spazio è impossibile trattare tutti gli avvenimenti che hanno portato alla situazione odierna. Questo spazio è invece utile, al di là del numero di persone che leggerano ciò che scrivo, per ribadire che la Storia non è mai una.
Bisogna studiare sempre due punti di vista per capire gli errori che vi sono in una parte e nell'altra. Non bisogna mai formarsi un terzo punto di vista che sia il risultato della sintesi tra i primi due.
Bisogna sempre tener presente che il conflitto in palestina è sì Storia, ma non solo quella fatta dai leader. E' la storia delle vittime incolpevoli, è un romanzo realista scritto da un principiante che mischia stili e generi letterari diversi.
E' un lavoro difficile per diverse ragioni: in primo luogo si deve arretrare nel tempo, e cominciare l'indagine dalla fine dell'Ottocento.
Inoltre, è un conflitto che può essere equiparato ad un libro non ancora terminato ma che può vantare la stesura di numerosi capitoli, tutti completi e coerenti.Ogni capitolo può dirsi concluso, ma il suo apporto rimarrà aperto fino a quando non sarà messo il punto definitivo a tutto il racconto.
Questa continuità fatta di episodi ormai datati, che però mantengono inalterata la loro influenza sulla situazione odierna, ha contribuito a rendere difficile un'interpretazione univoca. Ecco che, allora, un'analisi storica sulle origini e sulle prospettive dellla questione israelo-palestinese non può ridursi ad una cronologia delle tappe più importanti che hanno portato alla nascita dello Stato d'Israele e che hanno scandito i suoi scontri con gli arabi e i palestinesi.
Dietro ad ogni avvenimento ci sono delle logiche che si possono disvelare solo conoscendo le pieghe culturali e politiche che lo sostengono.
In questo spazio è impossibile trattare tutti gli avvenimenti che hanno portato alla situazione odierna. Questo spazio è invece utile, al di là del numero di persone che leggerano ciò che scrivo, per ribadire che la Storia non è mai una.
Bisogna studiare sempre due punti di vista per capire gli errori che vi sono in una parte e nell'altra. Non bisogna mai formarsi un terzo punto di vista che sia il risultato della sintesi tra i primi due.
Bisogna sempre tener presente che il conflitto in palestina è sì Storia, ma non solo quella fatta dai leader. E' la storia delle vittime incolpevoli, è un romanzo realista scritto da un principiante che mischia stili e generi letterari diversi.
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